Giuseppe Pespi Stefani
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Il pittore Giuseppe Pespi Stefani visto da Carmen De Stasio
L’urlo dell’uomo invisibile in attesa di un tempo “oltre”
La suggestione delle opere pittoriche di Giuseppe Pespi Stefani rimanda ad una narrazione che si nutre di paradossi, di ironia, con una forte componente caricaturale che tanto rinvia alla colorazione etica dei personaggi “disegnati” da Dickens. Il paragone potrebbe risultare forzato, se non fosse che l’autore inglese, iniziatore del romanzo sociale, imprimeva nelle sue narrazioni l’intreccio tra realtà, affabulazione ed elemento surreale, forzando le linee descrittive dei personaggi ed evidenziandone lo stile personale, soprattutto quando intendeva proporre un’immagine forte, esortativa di un’allusione visiva.
Irrealtà e realtà si incontrano nelle opere di Giuseppe, che le impone in una cornice evocativa di silenzio, in cui tutto è silenzio che esorta ad un’introspezione e ad una sorta di isolamento che implode, che ferma l’attimo nell’incontro del temps e della durée bergsoniani, in un intreccio in cui Kronos sembra segnare il percorso anche delle idee, come segno distintivo che congiunge la metafora dell’intima prospettiva, la solitudine dell’individuo contemporaneo e l’assurda attesa di un tempo che tarda ad arrivare.
Le sue tele sono rappresentazioni di una generazione che esclude dalle proprie argomentazioni l’avvilimento delle regole come sovrapposizione di voci ed esalta l’unicità di una voce propria, che si racconta, si descrive e si configura per il tramite di una cromia sottile, aguzza, che dissolve i toni della realtà in una soffusa atmosfera di sogno, una dimensione che si allunga come metaforico percorso diacronico di sviluppo in apparente incontro con la dimensione esterna.
Più che la figurazione di surreale inquietudine di Ernst, l’espressione di Giuseppe Pespi Stefani è riconducibile alle atmosfere di solitudine di Hopper: il colore si offusca e penetra le vite dei protagonisti in un’ambientazione opacizzata nella staticità, in cui lo sguardo del personaggio sembra non curarsi che del nulla, assorto in un’esemplificazione di pensiero che è confronto costante con una visione distaccata, immersa esclusivamente nel frastuono dei pensieri.
È la rappresentazione di una violenza silenziosa che spasima in un movimento intimo.
Il poeta-artista si confronta con il pulviscolo di una solitudine imperante, in cui le parole non hanno suono, ma si configurano come formule di circostanza. In fondo si può leggere l’opera di Giuseppe come l’ontologica espressione dell’individuo che vive immerso nella situazione angosciante e paradossale di chi è carico di aspettative e al contempo procede deluso fin dagli albori, che pensa di penetrare cerchi di vita, nei quali resta inesorabilmente imbrigliato.
È l’opera dell’uomo che ride, ma é privato del sorriso; che è immerso in un’apatia che urla senza emetter suono. Giuseppe ricompone quello squarcio e lo adegua al tempo contemporaneo nella sua percezione; ne affievolisce i colori e le tonalità, attribuendo altresì al personaggio un aspetto caricaturale, un po’ mediato da uno gnomo e da un piccolo mostro in solitudine che percorre un destino di vita e sbadiglia per il nulla.
Posso definire l’espressione dell’artista come un’affabulazione distante dalla gioiosa dimensione favolistica. Come tempo fa ho scritto in un saggio, non esistono fiabe per adulti o per bambini ma solo favole ambientali: Giuseppe appare come il rapsodo di una poesia scomposta e sussurrata, in cui le figure assorbono le tensioni, i rumori stridenti che assordano e li mescola all’interno delle sue creature condensandole con i suoi silenzi, formulando il quesito eterno che anela ad una motivazione a procedere e dando forma a intemperanze nascoste.

In foto:
Noia – olio su tela, 50 x 70.
Sensazioni – olio su tela, 50 x 70.
Poesia d’altri mondi – olio su tela, 120 x 60.
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